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Ti basta sempre meno

Aggiornamento: 18 nov 2023



Nella notte mi sono svegliata spesso, e pensavo, pensavo. E invece di staccare, osservavo le vergogne, il non aver mai concluso niente, i fallimenti sociali.

Prima si cerca di compiacere ai modelli, poi si cerca di accettare ciò che è, poi di applicare nuovi modelli. E solo via via ci si accorge che non vogliamo modello alcuno, e che ve ne sono ancora numerosissimi da togliere e che la soluzione ai fallimenti non è più il cambiamento della cosa ma la cessazione del concetto di fallimento. Che per esempio

la gioia e libertà di non dover produrre nulla, di non avere alcun legame o condizionamento al fare, pur facendo ciò che la forma chiama a fare, è mille volte più sublime che nutrire una passione o una realizzazione personale.

Via via queste cose arrivano a una comprensione che non è intellettuale, di buonsenso, o sentimentale. E men che meno morale. Non potrei mai suggerire a nessuno di rinunciare al fare, ai sogni.

Il modo in cui, via via, ci alleggeriamo di certe necessità, e in cui il cosa perde incisività sulla pace, la grazia, la purezza e il silenzio, non è qualcosa che possiamo davvero dirigere. Perché, finché vogliamo dirigere, siamo in quella stessa “aziosità”, in quell’essere agenti, in quel volere, che impedirebbe l’alleggerimento stesso che evidentemente non si è ancora fatto strada.

Vi posso solo dire che la Vita dà ciò che è necessario a questi fini, se non la manipoliamo. Se invece la manipoliamo, otteniamo questa o quella soddisfazione, ma non la libertà. Che è ciò cui essa incessantemente vuole condurci. Come se la Vita volesse condurci di là del castello, ma noi continuassimo a fermarci per le numerose stanze. E credessimo di fare bene ad appagarci con questo e quello. Ed è un bene, immagino, ma è sempre una richiesta: in nessuna richiesta può esserci libertà.


Questo alleggerimento dai condizionamenti più insospettati (che serva sempre fare, che sia ovvio dover risolvere cose, che la salute sia più normale e giusta della malattia, che si debba vivere in prosperità, che un figlio malato sia "meno giusto" di un figlio sano, che una cosa valga più di un'altra, che se vengo licenziato per forza sono infelice, che è normale essere tristi se c'è un problema, che la noia esiste, e così via), può dunque solo venire per altri mezzi: uno è la crisi, lo scavo, con o senza situazioni esterne contingenti, per cui veniamo dilapidati di ciò cui eravamo interiormente legati. Un altro è un impoverimento del desiderio, ciò che i terapeuti chiamerebbero depressione: non ti interessa più niente. Non ci puoi fare niente. Soffri. Stai da schifo. Implori. Calmi la mente. Non hai nemmeno più paura. Ma il dolore è terribile. Una morte toglie, toglie e sembra togliere e basta. Un altro ancora è ciò che si matura grazie ai primi due: la disponibilità. Questa va dall’apertura, all’umiltà, alla resa più serena, secondo i momenti.


È una disposizione che si impara senza scelta. Così ci si impoverisce progressivamente: “Beati i poveri in spirito”. Non ritengo mai che la volontà abbia grande peso, perché il più delle volte la usiamo per resistere a questo scavo, a questo che la mente considera un furto ingiusto. Quello che invece dopo un po’ si osserva, è che per quanto la nostra volontà si ponga in opposizione (che ne siamo consci o meno), la Forza dello scavo vince. E via via ti basta sempre meno. Per essere vivo. Sempre di più. Allora finalmente ringrazi.


Be naked. Trust.

Maddalena

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