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La patologia dell'identità

La più grande convinzione limitante è credersi un io pensato


Io credo che molte limiting beliefs (convinzioni limitanti) siano rimaste come pattern perché il fatto di chiamarle "pattern" o "limiting beliefs" non le questiona, aspettiamo che se ne vadano. Ma se le guardi bene, tipo se guardo bene l’inconcludenza, o il sentimento di me che non "decollo" mai: quale ragione reale esiste perché io non decolli? È solo una storia che mi fa comodo. Ma non so che la uso per il comodo. Altrimenti avrei la volontà a lasciarla.


Ma se la guardi bene: dove sta? Dov’è, esattamente, questa limiting belief di non decollare? Dov’è, dove è incisa? Sul naso, sulla spalla? Impressa a fuoco sulle mani?

Noi davvero siamo dio e non abbiamo limiti: se un’anoressica si vede grassa allo specchio ma è un filo, la sua patologia è la patologia di tutti.

Tutti abbiamo un’immagine di noi che non è reale, e poi impariamo ad accettare limiti che non sono reali ma solo pensieri. La mente non ha limiti reali, alcuni limiti esistono ma solo nel corpo. Certo ci sono inclinazioni e talenti, ma in potenza nulla è impedito e il vero impedimento è solo un pensiero, inconsistente.


A un certo punto cominci a sospettare che non credi davvero per esempio di essere inconcludente, ma credi alla sua indissolubilità, dici “è un pattern” e credi all’irriducibilità del pattern in quanto pattern, più che al suo contenuto.

In generale, ciò che chiamiamo patologia mentale è solo una lente di ingrandimento sulla nostra stessa patologica convinzione di essere un io pensato e pensabile.

Di dover essere definiti da. Di dover rispondere a una domanda: “Chi sei?” Allora diamo nome, cognome, professione. A un livello più ampio elenchiamo gusti, pregi e difetti. Se siamo più intimi aggiungiamo desideri e sogni.

Ma tutto questo non è chi siamo: è la forma che ci contiene e dalla quale, in verità, sbordiamo infinitamente.

Be naked, be unthinkable,

Maddalena

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